domenica 17 aprile 2011

La Sira vibonese conquista Milano a teatro

Servizio giornalistico a cura di Giovanna Fronte

Per Sira innumerevoli sono i commenti positivi tant’è che l’opera è stata rappresentata di recente anche a Milano presso il Teatro della Cooperativa. Scritto da Tino Caspanello, interpretato da Paolo Cutuli ed Andrea Naso, con le musiche ed elaborazioni suoni di Alessandro Rizzo, scene di Maria Concetta Riso e per la regia di Andrea Naso, gode del patrocinio di Libera coordinamento di Vibo Valentia. Riprendiamo e pubblichiamo a tal proposito una nota a firma di Michela Gatti di Massa. “Lo spettacolo (ma suona incongruo definirlo spettacolo, piuttosto la nekuia, l’incubo materializzato, la discesa nei gorghi dell’anima) termina lasciando un dubbio. Partire dalla fine, per raccontarlo, è quasi inevitabile, perché l’emozione del pubblico, inconsciamente, si concentra e si ferma su quell’alternativa finale e la domanda imperante è: “Ma il Professore, si suicida?” Sulla scena rimangono la sua 24 ore gonfia, pesante, che fino a poco prima non gli si staccava dal braccio, una sigaretta finalmente accesa e non fumata, un giornale e… Salvatore, sconvolto, involto in un baratro di disperazione: una di quelle brecce dell’esistenza in cui l’Essere si concentra e si fa Ente, Presente. In realtà l’interrogativo che si impone agli spettatori è un alibi della ragione, un excamotage inconscia per cauterizzare e sviare il malessere vero. Così ci si concentra sul finale, che a ben vedere, però, non potrebbe essere che così, aperto, quasi banalmente (in senso positivo). E’ chiaro che l’alternativa “si suicida/se ne va” non è fatta per dare adito alla speranza. Al contrario, l’alternativa è data perché tutto quel che doveva succedere si è compiuto e il “dopo”, semplicemente… è irrilevante. Cosa succede prima? La storia è scarna e totalizzante ed è di per sé potente. Ma ciò che sconvolge è come si incarna, senza “sbrodolamenti” o retorica, grazie alla regia e agli attori. Crimine di iniziazione, con vittima scelta non a caso, da un padre-padrino-Dio che compare solo in voce. La vittima, che “non la conòsci”, in realtà Salvatore la conosce benissimo: è l’ex professore che ha fatto breccia nel ragazzo in un passato recente, quando Salvatore studiava per passione, ma faceva scena muta per malinteso “orgoglio”: perché con l’ “azienda” di papà la scuola non serve. Salvatore aspetta la vittima nella notte. La vittima aspetta un salvatore da sempre, che lo liberi dal deserto della vita, dall’attesa dell’agguato. Non quel Salvatore, però: quel Salvatore è una nuova beffa del destino. Paolo Cutuli (Salvatore) è una “bestia da palcoscenico”: l’immedesimazione è totale, fisica. Chi abbia la fortuna di intravvederlo dietro alle quinte dopo lo spettacolo si rende conto che gli ci vuole un po’ per uscire dalla trance del personaggio, che è come meglio non si potrebbe. Se Salvatore è la manifestazione di una lotta interiore somatizzata, che sta - e fa star - male, il Professore (Andrea Naso, anche regista) al contrario è di una freddezza che sconcerta, bianco e irrigidito, quasi crudele. In quel contrasto si capisce che il Professore è già morto, aspetta solo di vedere in faccia chi sancirà il trapasso. La bravura di Naso sta tutta nel mantenere quella mancanza di emozione (in contrasto col tumulto di Salvatore) e far trasparire una paura vibrante di fronte al materializzarsi del momento atteso e temuto, un terrore involontario, mero spirito di conservazione. Ciò che sconcerta, perché non “drammatico”, ma reale, è che il Professore non ceda a “compassione”. Anche quando sputa in faccia al giovane la sua tragedia, insopportabile al solo immaginarla, il pathos non esonda mai, si ferma in fondo agli occhi. Di qui il disagio, la inadeguatezza teatrale, che è un pregio: l’uomo disincantato, che ha perso tutte le sue ragioni di vita e aspetta solo l’incontro con il sicario, a cui si è preparato ogni giorno come un rituale, quello è un uomo che non piange, non com-patisce, è già un miracolo che si arrabbi, sia sarcastico e, senza volerlo, si attacchi alla vita. Fuori da ogni retorica teatrale o buonista, infatti, quando il Professore parla a Salvatore, non pare farlo per il giovane, ma per sé, per guadagnar tempo, chiudere il cerchio, quasi, per vendicarsi. Lo “spettacolo” è uno spaccato breve, ma di più non sarebbe tollerabile, anche per quel suono cupo, come il battere del cuore nelle orecchie, che lo accompagna dall’inizio alla fine; così come all’inizio e alla fine risuonano le parole di “Alla sera”. Letta all’inizio come viene letta in un’aula di scuola, in modo didattico, senza nascondere l’inflessione del dialetto calabrese, giunge sul finire come la brezza di una primavera lontana, la dolce eco di una comune età dell’oro irrimediabilmente perduta. Non importa se il Professore si suicida, in ogni caso, si è liberato da un peso, come della grassa 24 ore che abbandona sulla scena. Forse muore, diventando “libero” come i suoi cari. Forse no. Non è detto che dalla ‘ndrangheta ci si liberi solo con la morte: accendendo finalmente la sigaretta, tuttavia non l’ha fumata, ma l’ha lasciata ardere. Lo stesso, in fondo, ha fatto con Salvatore. Proseguendo un percorso intrapreso come direttore artistico della Compagnia Dracma e del Teatro di Torre Marrana (VV), con Sira Andrea Naso porta in scena, come attore regista, una forma di teatro neorealista, minimale nelle forme sceniche, scarnificato, ma denso di emozione e contenuti. Le scelte artistiche di Naso impongono prepotentemente – a chi abbia la fortuna di imbattervisi – una cultura del Sud (e della Calabria in particolare) in grado di offrire tematiche che, rifuggendo da un vuoto minimalismo, esprimono tutta la potente drammaticità dell’esser uomo. Finalmente qualcuno che dà voce a chi ha qualcosa da dire!”.

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